Mayhem – “Deathcrush” (1987)

Artist: Mayhem
Title: Deathcrush
Label: Posercorpse Music
Year: 1987
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Silvester Anfang”
2. “Deathcrush”
3. “Chainsaw Gutsfuck”
4. “Witching Hour”
5. “Necrolust”
6. “(Weird) Manheim”
7. “Pure Fucking Armageddon”
8. “Outro”

Ci si dovesse soffermare a riflettere sul serio in merito al successo del Black Metal, in termini di longevità generale così come di ritorno economico e mediatico per diversi suoi esponenti, il controsenso principale che ci troveremmo ad affrontare sarebbe con ogni probabilità localizzato nello spiegarci come una simile rivoluzione sonora, estetica e per certi versi anche filosofica possa aver attecchito al suo stadio iniziale pur avendo i propri padri fondatori in un branco di teppistelli, i quali, in maniera peraltro del tutto legittima, non si facevano certo problemi a dimostrare la loro fisiologica immaturità in molteplici occasioni. Non si tratta ancora di spingersi ai gesti più estremi tra quelli famosamente proliferati in Norvegia all’alba dei nineties, quanto più della crescita e formazione avvenute suppergiù un lustro prima di alcune personalità abbastanza borderline trovatesi in bilico tra la vocazione giovanile al casino, nutrita dalla concezione festaiola allora dominante nell’ambiente, ed il puerile bisogno di distaccarsi dalle convenzioni artistiche ed ideologiche per modellare qualcosa di intimamente proprio. Ecco quindi che di fronte a “Deathcrush”, ai suoi testi traboccanti emoglobina e alle fotografie a base di birra, smorfie e look saxoniano tutto denim and leather, viene spontaneo chiedersi con quale credibilità dei nemmeno maggiorenni in preda all’euforia ormonale abbiano contagiato i loro coetanei in un disegno di portata nazionale (e soltanto in seguito mondiale), se non ammettendo che persino dietro agli anche più risibili e precoci proclami di Euronymous vi fosse una necessità creativa autentica, irrinunciabile e totalmente menefreghista di cieche svalutazioni postume.

Il logo della band

E a proposito di riscrittura postuma, chi scrive ricorda ancora le legioni di opinionisti virati in nero che circa tre anni fa, nel fallimentare tentativo di mascherare la loro predilizione verso i mondani lustrini di contorno al nocciolo della questione, difendevano a spada tratta un prodotto cinematografico scadente berciando di come questo mostrasse senza filtri le imberbi figure dei ben noti prime mover norvegesi, etichettando ogni singola critica ad esso quale piagnisteo da fanboy ferito nell’animo di fronte alla realistica e smitizzante rappresentazione dei suoi eroi; peccato però che qualunque appassionato dei Mayhem, a prescindere dalla sua sacrosanta devozione al monicker, da sempre conta tra i suoi album preferiti un mini pubblicato nel 1987 il cui ricordo, a distanza di trenta se non trentacinque giri della Terra intorno al Sole, è già sufficiente a demolire il luogo comune di pretesa serietà che a detta di alcuni affliggerebbe il sottomondo blackish – come se poi la condotta di un ristretto sebbene ingombrante gruppo che fu potesse bastare a tirare le somme in proposito.
Lontano dall’essere una testa di ponte verso nuovi orizzonti (ma in retrospettiva decisamente utile a zittire gli espertoni che affibbiano la paternità del Black Metal a Sarcofago e Blasphemy, antesignani di rilievo a modo loro seppure ampiamente screditati da un culto che puzza di tavolino da svariati chilometri), “Deathcrush” cattura gli sforzi di cinque adolescenti decisi ad importare, nel vuoto musical-pneumatico di una Norvegia ostaggio degli A-ha esplosi un biennio addietro, la weltanschauung estremista dilagante tra Pangermania e Nord America. Nessuna ambizione quindi se non quella di battere al loro stesso gioco i numi tutelari che tutti ormai mandiamo a memoria, tipo quei Venom bruciati in partenza da una frastornante rilettura di “Witching Hour” la quale spiega meglio di ogni altra parola l’ortodossia metallica di fine anni ’80: quando l’importante era suonare veloci, marci, reazionari e sporchi a qualsiasi latitudine ci si trovasse. Per esorcizzare una certa e non ancora pienamente afferrata oscurità, questo è certo e ben udibile, ma magari divertendosi pure nel frattempo.

La band

I giovani Mayhem difatti rivendicano senza problemi la piena adesione a tale attitudine votata a bpm e volume disumani, tant’è che al di là di qualunque interpretazione soggettiva “Deathcrush” risponde agli stessi dettami di Kreator e Sodom unendo semmai la vocazione ultraviolenta imbracciata dallo squadrone di Essen ai purulenti rallentamenti sperimentati invece dai minatori di Gelsenkirchen; sempre con addosso l’addizionale dose di sporcizia contornante le sparute registrazioni degli Hellhammer ed i primi seminali prodotti a marchio Bathory, i cinque brani effettivi di quello che sarà l’iconico dischetto rosso della band coniugano abilmente l’aggressione armata di Pleasure To Kill” ed il malato deambulare su Obsessed By Cruelty”, incarnati ai loro massimi dalla title-track elementare nelle iraconde strofe e tuttavia capace di imprimere nelle reti sinaptiche quel dannato riff in cinque quarti, portone d’ingresso nella Storia della musica sfondato a calci da Euronymous senza che costui nemmeno vedesse ancora nella carriera artistica un’opzione plausibile. Dietro comunque al pesantissimo vessillo di Øystein Aarseth, in ogni caso ben meno gravoso di quello che ricopre il leggendario full-length uscito nel ‘94, a reggere i fondali di una messa in scena grandguignolesca quanto scanzonata troviamo sia la sezione ritmica sballottata dalle rombanti frequenze di Necrobutcher così come dal confusionario apporto di Manheim, sia la spinta verso una nuova via all’urlo data dai raggelanti Maniac e Messiah; di nuovo, nulla che avesse una minima una parvenza di originalità specie in un 1987 in cui i riferimenti sopra citati si avviavano alla composizione di cose come “Into The Pandemonium” o anche solo “Under The Sign Of The Black Mark”, ma nondimeno la cocciuta dedizione alla corsa suicida contro il muro della cacofonia deflagrato da un ultimo, puro, fottuto Armageddon.
In fondo la forza di “Deathcrush” rimane l’onestà d’intenti, lo spirito caciarone che -piaccia o meno- avrà sempre un certo appeal sui fruitori di una proposta, almeno al suo stato originario, diretta al fanciullino interiore che vuole soltanto dare fastidio agli adulti con un rumore immondo narrante il lato nascosto dell’esistenza; quello che serve spostare qualche coperta per vederlo bene. Sicché i nemmeno venti minuti di furore inaugurati dall’austera introduzione militare (concessa alla band di Oslo, come ampiamente noto, dal Conrad Schnitzler di blasone Tangerine Dream rovistante tra i suoi scarti di registrazione) vanno a chiudersi nella bolgia cameratesca di una nenia per bambini intonata, in una sala prove traboccante lattine vuote, da dei semplici ed ancora innocenti ragazzi: ieri un divertito dileggio a sé stessi e all’ascoltatore sopravvissuto alle precedenti ostilità mentre oggi, sebbene occultato dalle future ristampe sotto la più focalizzata Deathlike Silence, uno sguardo gonfio di rimpianto ad un’epoca dove anche nella totale cattiveria era concesso essere infantili.

“We all dream of being a child again, even the worst of us. Perhaps the worst most of all.”

Vi sono essenzialmente due casistiche entro le quali un’opera d’arte, poco importano la natura della prima o l’ambito della seconda, si trova a poter venire elevata da ottimo prodotto di genere alla volatile categoria dei classici irrinunciabili per la comprensione del suo ecosistema di riferimento: una, più diffusa, riguarda le pietre miliari che non senza un filo di arroganza si pongono consciamente come prologo ad una nuova epoca (si ode bisbigliare “A Blaze In The Northern Sky”, non solo per il medesimo produttore Erik Avnskog); mentre l’altra, ben più rara, vede protagonisti i puri e semplici capolavori capaci di riassumere, grazie alla caratura superiore delle menti dietro di essi, interi movimenti nati in precedenza e ora spinti al massimo delle loro possibilità espressive (e qui il sottoscritto, tra i milioni di corretti esempi, opterebbe per “Battles In The North”).
Ebbene, a riascoltare dopo la bellezza di tre decadi e mezzo il celeberrimo EP che diede ufficiale inizio alla travagliata esistenza dei Mayhem, non sarebbe così sbagliato ipotizzare un terzo scenario in cui includervi quel piccolo grande episodio e, probabilmente, nessun’altra testimonianza mai catturata su nastro; perché nella sua fulminea eppure burrascosa durata, “Deathcrush” non si rivela affatto una pietra miliare né tantomeno un capolavoro, ma rappresenta senza dubbio alcuno la conclusione di un percorso – e soprattutto di un certo modo di approcciarsi alla musica pesante, ironicamente realizzato da un collettivo intento a muovere i suoi primi passi e lasciarsi alle spalle orme tinte di rosso. Se poi questo provenisse dai tagli di un ancora sconosciuto Dead o dal cordone ombelicale ormai reciso di una nuova bestia pronta a scatenarsi lassù in Scandinavia non è mai stato del tutto chiaro. Ma forse, in fondo, non ha mai avuto poi troppa importanza.

Michele “Ordog” Finelli

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